Ajinomoto-Insud: storia del fallimento di una politica industriale

La fotografia che illustra l’articolo mostra una bustina di glutammato monosodico prodotta dall’azienda giapponese Ajinomoto-Insud, in vendita su Amazon e in diversi supermercati. Ma quanti ricordano che quel prezioso insaporitore alimentare veniva prodotto una volta in Capitanata, a Manfredonia?

La storia dell’Ajinomoto-Insud di Manfredonia e della vertenza che esplose all’indomani della sua improvvisa chiusura, costituisce uno dei  capitoli più controversi ed emblematici del processo di industrializzazione vissuto dalla Capitanata a cavallo tra gli anni Sessanta e Settanta. Delle sue potenzialità, dei suoi limiti.
Da un certo punto di vista, lo stabilimento fu per dieci anni il fiore all’occhiello di quella stagione industriale, quello che meglio esprimeva la sua filosofia, almeno nelle intenzioni. Ma il problema comune a tante parte della fragile storia dell’industria meridionale è che spesso alle intenzioni, non hanno fatto seguito i fatti.
Realizzata grazie ad una intesa tra l’azienda nipponica e la Insud, finanziaria delle partecipazioni statali che furono tra gli attori principali della industrializzazione della Capitanata, quell’insediamento intendeva essere un ponte tra la nascente vocazione industriale del territorio e quella tradizionale, rappresentata dall’agricoltura.
Quale materia prima doveva essere utilizzato infatti il melasso, un sottoprodotto del processo di lavorazione della barbabietola utilizzata negli zuccherifici del Tavoliere. Sembra, però, che in realtà l’azienda fu sempre costretta ad approvvigionarsi dall’estero.
Le cose andarono bene per una decina d’anni: il glutammato veniva prodotto a Manfredonia e venduto in tutta Europa. Ma bastò una leggera crisi di mercato e l’approssimarsi della scadenza del contratto che la società giapponese aveva stipulato con l’Insud (in base al quale avrebbe dovuto rilevare tutte le quote statali) ad incrinare il rapporto tra gli industriali del Sol Levante e il territorio foggiano.

L’episodio più sconcertante della lunga vertenza riguarda proprio la chiusura:  i giapponesi se ne andarono veramente da un giorno all’altro, dopo aver smontato e portato via pezzo per pezzo i sofisticati macchinari che si avvalevano di processi produttivi all’avanguardia ed erano protetti da particolari brevetti. Non ci fu verso di avviare una qualsivoglia trattativa che salvaguardasse la presenza produttiva dell’Ajinomoto sul territorio.

Gli operai finirono in cassa integrazione, e si aprì una vertenza che sarebbe durata anni, senza che mai si riuscisse a trovare uno sbocco. Si fece avanti la Realtur che ipotizzò la riconversione dello stabilimento, con l’avvio di una linea di produzione di liofilizzati e surgelati, che negli auspici iniziali avrebbe dovuto utilizzare anche il pescato locale.
La società rilevò gli impianti, ma l’ambizioso piano industriale non fu mai realizzato. La cassa integrazione durò due anni, e per tutto quel periodo gli impianti rimasero inutilizzati. Uno spiraglio sembrò aprirsi all’inizio degli anni Ottanta quando la Realtur cedette parte dello stabilimento alla Lombarda Fertilizzanti che avviò la produzione per un certo periodo di tempo, ma poi fu essa stessa costretta a chiudere i battenti.
Della vecchia fabbrica è sopravvissuto soltanto il laboratorio, utilizzato dalla Realtur per la realizzazione di studi su commessa.
È singolare come la storia somigli non poco a quella dell’altro colosso industriale che tante speranze accese a Manfredonia, e non solo: l’Enichem.

Il contratto d’area scaturito dalla chiusura dell’industria chimica ha funzionato certamente meglio del fragile piano industriale della Realtur. Ma com’è accaduto  per l’Ajinomoto, una volta che sono finiti i contributi pubblici, anche le aziende che si erano insediate nell’area industriale orfana del petrolchimico hanno preso cappello, e se ne sono andate.
Il prof. Roberto Rana, ricercatore della Facoltà di Economia dell’Università di Foggia, ha scritto sulla storia dell’Ajinomoto-Insud di Manfredonia un bel saggio che descrive il ciclo produttivo impiegato dall’azienda e cerca “di comprendere, attraverso le vicende politiche, storiche ed economiche relative a quegli anni, le motivazioni che hanno indotto alla sua costruzione e successiva chiusura.”
La conclusione del prof. Rana è lapidaria, ma del tutto condivisibile: “Questo evento rappresenta un esempio del fallimento della politica di sviluppo industriale operata dallo Stato nel territorio nazionale e un’ altra occasione perduta per l’economia del Mezzogiorno d’Italia.”

Geppe Inserra

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